Presentazione dell’ASSO.C.A.L.
Chi si accinge a presentare l’associazione è un anonimo “io narrante” consapevole, però, che l’arida cronistoria, dalla sua nascita ai giorni nostri, l’elencazione dei presidenti succedutisi e degli eventi formativi di carattere fiscale, tributario e lavoristico, possono risultare noiosi e di scarso interesse non solo per gli associati, ma anche per chi, casualmente, si imbatta nella sua lettura.
Per questo motivo ho scelto di scrivere, come se dovessi inserire un messaggio in una bottiglia e lasciarla navigare nel mare, sicché qualcuno, leggendone il contenuto, possa trarne qualche utile spunto di riflessione per sé e per gli altri, qualunque cosa faccia nella vita.
Ho recuperato alcuni brani scritti da Hannah Arendt, filosofa, storica e scrittrice tedesca, naturalizzata statunitense, soffermandomi in particolare sulla “Vita activa – La condizione umana” scritto nel 1958 ed il pensiero di Christian Thomasius, giurista e filosofo tedesco vissuto nella seconda metà del seicento, scoprendo elementi di continuità tra loro, attualità ed attinenza con le nostre professioni.
Proverò a trovare la sottile linea di congiunzione tra i due autori, così lontani nel tempo, e tra loro e noi.
La Arendt fotografa le tre condizioni dell’esistenza umana e della “Vita Activa”, vale a dire l’attività del lavoro esercitata dall’uomo nel suo ambiente naturale “la Terra”, l’insieme degli artefatti (opere) di cui l’uomo si circonda e lo spazio pubblico in cui gli individui interagiscono, cioè l’agire.
Orbene ritrovo descritta, nella sua estrema sintesi, la nostra condizione, è facile intravvedere, infatti, nell’ambiente “Terra” il nostro studio nel cui ambito quotidianamente ci arrovelliamo tra interpretazioni di codici, leggi e circolari, in un’alternanza di volti e storie di persone con il carico di preoccupazioni materiali e non, a cui a volte diamo risposte e, sempre più spesso, parole di conforto, altre invece in cui siamo noi ad averne bisogno.
Negli artefatti, sono racchiuse le nostre opere, che tra mille indecisioni, scelte, giuste o sbagliate, e conflittualità ci portano a dar vita al complesso organizzativo che definiamo impresa, alla sua gestione e cura delle risorse, fino alla sua, ahimè, frequente decozione.
Dalla Arendt ho preso spunto per il “cosa facciamo”, dal nostro Thomasius il “come lo facciamo” o, forse sarebbe meglio dire, come dovremmo farlo.
Egli descrive tre tipi di regole: ciascuno deve essere internamente come vorrebbe che gli altri internamente fossero, ciascuno deve fare agli altri ciò che vorrebbe gli altri facessero a lui ed infine ciascuno deve evitare di fare agli altri ciò che non desidera gli altri facciano a lui.
La terza regola comprende le azioni positive contrapposte alle azioni cattive ed ingiuste, tanto le une quanto le altre di non facile individuazione, esse sono oggetto di valutazione della giurisprudenza e di chi si occupa di tecniche giuridiche in senso lato.
Capovolgendo la scala gerarchica dei valori, risalendo cioè dalla terza regola alla prima, la priorità diventa quella di contenere i danni e di fare meno male possibile, in una parola tendere alla pace esterna.
Noi dovremmo essere gli artefici di questo processo di pacificazione non sempre di facile attuazione e su cui non mi soffermerò più di tanto perché il discorso scivolerebbe inevitabilmente nel campo filosofico e morale della esatta qualificazione del bene e del male, da sempre oggetto della speculazione umana, con definizioni mai univoche.
Se questa è la nostra condizione, saremmo condannati ad un inevitabile quanto sicuro fallimento, ma ci giunge opportunamente in soccorso la terza non dimenticata istantanea, per dirla in termini fotografici, suggeritaci dalla Arendt, lo “spazio pubblico”.
Il nostro ambito specifico e privilegiato è l’associazione nel cui contesto gli individui, altrimenti condannati alla solitudine, interagiscono, mediante il confronto, alla ricerca dei punti di contatto e non di divisione, il tutto alimentato dalla regola che impone a ciascuno di “non fare agli altri ciò che non desidera gli altri facciano a lui”.
Questi fattori appena descritti sono l’anello di congiunzione tra la Arend e Thomasius, tra loro e noi, princìpi che possono rappresentare l’esaltazione delle qualità positive di chi li farà propri, elevazione dello spirito di gruppo quando l’anonimo “io narrante” si trasfonde nello stimolante “noi”.
Bitonto, 27/11/2013
“io narrante”, “noi narrante”
Michele Urbano – ASSO.C.A.L .